Racconto della quinta edizione del concorso Nazionale “Quirino Maggiore” di Narrativa, Poesia e Fotografia in Nefrologia, Dialisi e Trapianto.
Opera di Roberta Borrelli, 1° classificata, sezione narrativa, categoria pazienti.
15 marzo 2020: compio quarant’anni. Un classico per una donna giovane, certo non più ragazza, sarebbe una bella crisi di mezza età in atto, ma per mia fortuna quella fase l’ho già vissuta all’incirca verso i dieci anni. Sempre all’avanguardia io.
Il mio regalo di compleanno è la vita. Sì, perché oggi è il mio primo giorno di dialisi. Che è una cosa buona dato che la dialisi mi permette di vivere, giusto? Credo di sì. Anche se a ben vedere un bel brillocco sarebbe stato meglio, ma magari quello lo riceverò da mio marito stasera a cena.
La cena! Che cosa meravigliosa! Da mesi, lunghissimi mesi, sono in regime di dieta aproteica. Non ho potuto sgarrare nemmeno una volta: il mio fisico non avrebbe retto. Mai un goccio di Coca-Cola, acqua minerale o vino. Niente pasta o pane tradizionali, ma solo quelli aproteici della farmacia, anche detti “fintissimi”, fatti con fecola di patate e proteine sintetiche che servono a dare l’illusione che stai mangiando come un essere umano normale. Il pane aproteico è talmente una merda che se non viene riscaldato servono le mascelle di Ridge Forrester per poterlo masticare. Mai verdure, se non bollite per due ore in tre litri di acqua per far sì
che perdano sodio e potassio. Il sale? Non pervenuto. Con la dieta aproteica mangi per finta e perdi pezzi di vita nel tentativo di salvartela. Quando ero piccola svenivo appena vedevo l’ago, scappavo e urlavo in preda a delle crisi isteriche. Anche oggi, la cosa che più mi ha infastidito è stato il momento in cui mi hanno messo il laccio emostatico e la vena ha iniziato a pompare… l’ho odiato.
Ma poi, a dirla tutta, è andata meglio del previsto. Mi sono calmata quando ho iniziato a scrivere. Ora ho capito perché Lucrezia ha voluto farmi il regalo di un taccuino sul quale annotare le mie sensazioni, e quindi eccomi qui. All’inizio di tutto questo casino, il nefrologo mi aveva detto che avrei dovuto fare la dialisi peritoneale. In pratica ti mettono un catetere lungo dodici centimetri all’altezza dell’ombelico, giusto un po’ più spostato, e il tuo peritoneo funge da filtro tramite cui far passare il sangue così da permetterne la pulizia. Secondo lui sarebbe stato meglio, più bello, più figo, non avrei dovuto fare l’operazione al braccio e tante belle
cose. Tuttavia, questo tipo di dialisi richiede un impiego costante. Tutte le sere. Otto ore. Tutte le sere. O-t-t-o ore. Cazzo, no. No, perché mia figlia viene ancora a dormire tra di noi nel lettone, di tanto in tanto. No, perché non avrei potuto andare al cinema o a mangiare una pizza, dato che alle 22 avrei dovuto attaccarmi alla macchina. E immaginare che a vietarmi questi piaceri ci avrebbe pensato la pandemia! Clara 0 – Dialisi peritoneale 1. No, perché la vita di coppia sarebbe stata quantomeno imbarazzante: il piccolo tubo del catetere avrebbe dovuto essere proprio vicino alla mia vagina, cosa avrei dovuto fare per renderlo sexy? Metterci
delle luci rosse intorno? O magari un bel boa di struzzo? Anche no, grazie. Insomma, scartata l’idea della dialisi peritoneale, restava quella a braccio. Ed eccomi qua. In dialisi, ma senza tubi che mi escono vicino ai genitali. In dialisi, ma ancora sexy. Ed è meno doloroso di quanto credevo, a parte il freddo e il dolore che avverto all’inizio, non ho nausea o giramenti di testa, quindi forse si può fare senza particolari drammi. Sento che riaffiora in me quello spirito di sopravvivenza che contraddistingue qualsiasi essere umano. Ripenso alle parole della mia terapista (che ho iniziato a frequentare quando ho avvertito la vita sfuggirmi di mano): «Non
puoi controllare tutto; invece di organizzare la vita, goditela». Un’illuminazione. E allora sì, invece di pensare alla macchina a cui sono attaccata, penserò alle patatine fritte che non mangio da mesi, alle persone che mi amano, a quelli che stamattina mi hanno mandato messaggi di conforto e speranza, alla mia famiglia che mi ha abbracciata dandomi la forza, alla brezza fresca d’estate e al sole caldo d’inverno, al mio appagante lavoro, alla fortuna di crescere mia figlia insieme a mio marito. Che, nonostante tutto, mi è sempre rimasto accanto. E spero proprio che stasera mi regali qualcosa di bello, magari un rene compatibile con la mia genetica.
Ma non mi faccio troppe illusioni. Anche un anello con rubino può andare bene. O una borsa. O un paio di orecchini. Ok, basta, ci siamo capiti.