Una notte di febbraio mi svegliai dal sonno dogmatico….

Racconto della quinta edizione del concorso Nazionale “Quirino Maggiore” di Narrativa, Poesia e Fotografia in Nefrologia, Dialisi e Trapianto.

Opera di Olimpia Ammendola, 3° classificata, sezione narrativa, categoria paziente.

Una notte di febbraio fredda, senza stelle e con una luna coperta da un velo uggioso e persistente, fui svegliata dal sonno dogmatico… dal sonno o dal sogno?


Un messaggio dell’urologo che mi era pervenuto intorno alla mezzanotte, diceva pressappoco così: Signora lei deve andare immediatamente in ospedale, i suoi valori sono alterati, c’è una nefropatia in atto. Lessi tra sonno e veglia il messaggio del medico al quale avevo consegnato quel pomeriggio i risultati delle mie analisi. Ma cosa dice questo medico? Io malata? E di che? Nefropatia? E che è? Ma no! I medici ti trovano sempre qualcosa!


Le parole di mio padre che avevo per una vita ascoltate e che per me erano più vere del vangelo, della bibbia, del corano ecc., insomma una verità rivelata e la mia, una convinzione inossidabile che non si scioglieva neanche di fronte alle più feroci evidenze. La malattia? In tutta la mia vita non avevo mai avuto la febbre; l’influenza, quando colpiva anche me, raramente devo dire, aspettavo che passasse. Ecco, io ero esente dalla malattia. La malattia colpiva gli altri, i deboli, gli sfortunati.


Io ero nata forte, fortissima. Niente pillole, niente medici, niente cure. Qualche volta si, mi era capitato di andare in ospedale, ma si era trattato di congiunture passeggere, senza alcuna conseguenza. E ora d’improvviso mi si voleva far credere di essere una malata. Ma no, di certo, il medico aveva preso un abbaglio!


Il mattino dopo, alle 8, una telefonata. Era il medico che, senza mezzi termini mi diceva che non potevo permettermi di sottovalutare la mia situazione e di andare subito al pronto soccorso. Era il periodo del covid, eravamo nel pieno. Cominciai ad avere paura.


Telefonai ad un amico che lavorava al Cardarelli (a Napoli se non hai amici non entri nelle strutture pubbliche) e mi disse che non era il caso di ricoverarmi perché rischiavo di non uscirne viva. Mi disse di andare al Monaldi dove, grazie ad un altro amico che lavorava al centro dialisi, immediatamente mi visitò il primario nefrologo che mi dette subito la diagnosi. Fece un calcolo e mi disse che avevo una insufficienza renale cronica al quarto stadio. Non capivo cosa volesse dire ma mi resi conto che la cosa era seria e che dovevo abbandonare le mie granitiche certezze. La dialisi diventava la mia prospettiva, il mio futuro. E così all’improvviso, sono passata dall’altro lato della barricata ad ingrandire l’esercito dei malati.

La malattia, questo lato notturno della vita, toccava anche a me e cosi dovetti cominciare a convincermi che ritenersi esente da essa, è stupidità, presunzione, desiderio di superiorità, non accettazione del limite, non accogliere quella che oggi scopro essere una splendida categoria esistenziale: la fragilità.


La fragilità, il limite, la percezione dell’imperfezione, del fallimento, sono tutti anticorpi di quella subdola malattia del nostro tempo che va sotto il nome di delirio di onnipotenza. Una malattia ben più grave di tutte le malattie, che ha ucciso il sacro, che ha annientato il desiderio e distrutto il senso della bellezza. E non ci sono pillole. L’unica cura è la malattia. Appunto, la malattia come cura. La malattia ti fa entrare in punta di piedi, in un mondo altro, un mondo che non può più ignorare la morte, che ti apre spiragli insospettati, è come un viaggio che comincia da un sentiero interrotto, da una strada promettente, tutta in discesa, carica di gioiosa sicumera e ti inoltra in un mondo dove il domani si presenta minaccioso, incerto, carico di paura e dove la speranza o te la sai ricostruire con le poche briciole della tua voglia di vivere residua o è spenta per sempre. E allora capisci che assumersi la responsabilità della propria malattia, come diceva Ildegarda, è un atto necessario. Vedere il medico come dispensatore di cure è un’altra illusione, un altro autoinganno del nostro tempo. La medicina è un’arte, una creazione e un po’ anche tu devi diventare artista, creare e ricreare una possibilità di vita, ma soprattutto un modo di vivere con dignità questo lato notturno che, parafrasando il filosofo di Konisberg, ha la potenza di svegliarci dal sonno o dal sogno dogmatico. E così ora, senza più granitiche certezze, scopriamo quanta bellezza c’è nelle piccole cose, nella banalità del quotidiano, quanto si allarga il cuore nell’osservare i disegni incredibili delle nuvole e le nostre alterne vicende, le nostre strade tortuose, cariche di quel meraviglioso enigma che sovrasta l’universo: l’ignoto. L’ignoto che ci illudiamo di controllare e che Francesco lo avrebbe chiamato fratello ignoto, come fratello sole e sorella luna. O come sorella morte.

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